Tutti mi dicono che avere un marito cuoco sia la più grande fortuna che la vita potesse riservarmi e, ogni volta che sento pronunciare questa frase, sono quasi certa che il mio interlocutore m’immagini protagonista di una scena degna del “Pranzo di Babette” o di “Vatel”: a capotavola di un tavolo di legno talmente lungo da non riuscire a vederne il limite, imbandito con manicaretti dalle fogge stravaganti. Se potessi sbirciare nel pensiero degli altri, ci troverei senz’altro vassoi colmi di luccicanti arrosti di carne o alzate con torte di almeno tre piani, i cui decori di glassa bianca fanno impallidire le decorazioni barocche del Serpotta. Una scena che è una via di mezzo tra una cena alla corte di Louis XIV e un girone dantesco.
Nel quotidiano, tuttavia, la routine domestica (specialmente quella culinaria) mi riserva dinamiche molto differenti e ciò che l’immaginario altrui identifica come idillio non si avvicina nemmeno lontanamente alla realtà.
Se chiudo gli occhi e penso a noi, al mio essere la moglie di un cuoco, vedo distintamente le nostre colazioni sempre in bilico tra il silenzio del sonno e la voglia di riempirle delle tante parole per cui è complicato trovare un altro momento, nelle giornate di orari strampalati che facciamo. Credo che lì, tra un caffè e una ciotola di cereali, risieda l’essenza della nostra famiglia.